La storia “dimenticata” del Brunello di Montalcino | 1980-1990, il D-Day in salsa sangiovese; i “grandi del vino” sbarcano a Montalcino (parte 6)
di Stefano Cinelli Colombini
da Intravino
Per giocare un po’ vi racconterò i “dieci giorni che sconvolsero il mondo” del Brunello, i dieci eventi che hanno fatto del nostro grande Sangiovese quello che è. E che nessuno ricorda. Forse perché tutti preferiscono le favole? Ecco la sesta parte.
In più o meno un decennio, Frescobaldi, Banfi, Antinori ed altri pezzi da novanta del “Gotha” del vino arrivano a Montalcino; è il D-Day in salsa sangiovese. Un diluvio di mezzi cingolati (ruspe, beninteso!) e di capitali si riversa rombando sulle spiagge dell’Orcia e dell’Ombrone. Oddio! Sono enormi, qualcuno è pure americano, chi li fermerà?
A più di trent’anni dall’evento, quando la “nebbia della guerra” si è deposta da tempo, vorrei tentare un’analisi oggettiva. Il terrore, nostro e non solo nostro, era che Montalcino cambiasse. Terrore giustificato, Montalcino è cambiato. Ma come? Si temeva la concentrazione dei vigneti in poche mani, ed è accaduto l’esatto contrario. Nei primi anni ’90, le 15 più grandi aziende (tra cui la mia Fattoria dei Barbi) avevano 550 ettari di Brunello su 1.200, e oggi ne hanno solo 750 su 2.100. Si era “certi” che i vignaioli ilcinesi, grandi o piccoli che fossero, avrebbero mollato e (s)venduto al primo sventolio di banconote di qualche ricco “foresto” impaccato di soldi.
Manco per niente, ci sono state fin troppe offerte pazzesche ma i nostri hanno resistito (quasi) tutti. Anzi, hanno insediato figli e nipoti comprando sempre più terra e sono i veri padroni della Denominazione. Chi li schioda più? Nemmeno il diserbo. Si temeva che i nuovi arrivati avrebbero usato la loro influenza per monopolizzare premi, giornalisti e visibilità, ed invece quelli che ottengono punteggi stellari sono quasi tutti giovani imprenditori locali. Si paventava un’economia da colonia, con gli indigeni sfruttati per arricchire avidi padroni (delle ferriere) stranieri, ed invece abbiamo un benessere molto diffuso. Ci si aspettava la distopia, il saccheggio del territorio, i veleni e la fine delle adorabili file di cipressi.
Beh, qualche collinetta si è, come dire, “ingentilita” e un noto manager si è ritrovato traslitterato da Rivella in “Livella” dai perfidi montalcinesi, ma il paesaggio è curato, bello e ogni traccia di abbandono è sparita. Non c’è degrado né inquinamento, e il “sapore” toscano è così ben preservato che l’Unesco ci ha dichiarato patrimonio dell’umanità. Ma la paura vera, quella che faceva tremare i polsi degli enofili, era un’altra; i nuovi venuti avrebbero imposto lo snaturamento del Brunello, e nessuno avrebbe potuto fermarli.
Poi invece, come spesso accade a Montalcino, la realtà è stata totalmente diversa da quello che sembrava. Nella temutissima assemblea sul “taglio” c’è stato più dell’85% di consenso al mantenimento del Brunello così come era; nel segreto dell’urna i nuovi arrivati hanno votato esattamente come i montalcinesi più “talebani”, altrimenti quei numeri non sarebbero venuti fuori. Ora siamo tutti per il sangiovese in purezza, anche perché è molto meglio vincere la pace insieme che continuare la guerra in eterno. Tutto oro quel che luccica? No.
Qualche sbavatura c’è stata, è innegabile. Ma, anche nei momenti di maggior conflitto, non abbiamo mai smesso di parlarci. Dunque quale è stato l’effetto dell’arrivo dei “grandi” a Montalcino? Forse sarebbe accaduto comunque, chi può dirlo, però dopo quegli anni è cambiato tutto. Il Brunello era già un fenomeno importante, ora è un’icona. Una piccola città di 5.000 abitanti produce il 5% del PIL vinicolo nazionale, una cosa incredibile. Forse siamo la comunità rurale più ricca del mondo. Certo, a Montalcino c’è un’enoteca dietro l’altra e nessun negozio che vende mutande, ma questo è davvero un problema? La cosa fondamentale è che l’arrivo di tante nuove imprese non abbia scacciato (né scalzato) gli “indigeni”, chi c’era c’è ancora ed ha prosperato come e più di chi è arrivato.
Il Brunello forse è migliore e forse no, ma comunque è rimasto se stesso. Non conosco altri casi di “innesti” così ben riusciti e direi che, al di là del mero orizzonte enologico, questo è un segno di grande civiltà. E, senza una grande civiltà alle spalle, i grandi vini non si fanno. Da soli terroir, soldi, promozione ed grandi enologi non bastano, è stato già tentato in tanti luoghi e non funziona. Mai.
Per leggere tutte le puntate:
La storia “dimenticata” del Brunello di Montalcino (parte 1)
La storia “dimenticata” del Brunello di Montalcino | Correva l’anno 1980 (parte 2)
La storia “dimenticata” del Brunello di Montalcino | 1984, arriva il Rosso di Montalcino (parte 3)
La storia “dimenticata” del Brunello di Montalcino | 1933, il primo boom di vendite del ‘900 (parte 4)
La storia “dimenticata” del Brunello di Montalcino | Banfi sbarca in città: 1979, 1981 o 1969? (parte 5)
La storia “dimenticata” del Brunello di Montalcino. 1980-1990, il D-Day in salsa sangiovese; i “grandi del vino” sbarcano a Montalcino (parte 6)