Dagli anni ’60 ad oggi: appunti per una storia del Brunello e dei vini di Montalcino (2 parte)
di Stefano Cinelli Colombini
da Intravino
La prima parte della narrazione di Stefano Cinelli Colombini si è interrotta nel bel mezzo di una scena madre: dopo i secoli d’oro, la nascita e l’ascesa del mito Brunello, arriva la caduta, negli anni Sessanta. Ora possiamo dirlo: l’abbiamo fatto apposta, ad interrompere il racconto proprio lì. Quindi non ci dilunghiamo oltre, mettetevi comodi, afferrate i popcorn, si alza il sipario: inizia la seconda parte. La puntata precedente sta qui. [F.S.]
Un territorio che era stato sempre ricco divenne in pochi anni uno dei Comuni più poveri della Toscana. Delle Fattorie che avevano fatto la storia del Brunello ne sopravvissero una manciata, più qualche decina delle neonate aziende a conduzione diretta. Quello è il periodo in cui nacque la stampa del vino in Italia, e chi arrivava qui in quel periodo poteva legittimamente pensare di essere finito in un deserto, era tutto abbandonato o in via di chiusura; fu per questo che molti si fecero un’idea del tutto inesatta del nostro vino, e da questo sono nate molte delle leggende del tutto false che ora passano per storia. La realtà è che il Brunello ed il Montalcino di oggi nascono da una grande storia, da un gruppo di famiglie e di aziende che l’hanno costruito con secoli di investimenti e studi, ma uno tsunami imprevedibile ha spazzato via quasi tutto; sotto le macerie restava ben vivo il prodotto e la cultura che lo aveva generato però buona parte della memoria e della storia era perduta, spazzata via con gli “agrari”.
Servirono dieci anni per riorganizzare il sistema produttivo, ma poi la ripresa fu rapida perché i fortunati ed i capaci che erano sopravvissuti si trovarono davanti un’opportunità unica; avevano un grande prodotto già perfettamente evoluto e tanto spazio per crescere. Vanno notate alcune caratteristiche positive di quel periodo. La prima fu l’integrazione tra produttori, società civile ed istituzioni; senza distinzione di partito, origine sociale e ideali molti si dettero da fare per il rilancio della comunità. Non c’erano più i viaggiatori verso Roma e così nel 1961, con l’intento dichiarato di sostenere il turismo ed il vino, la popolazione si inventò due “Sagre in costume medioevale” in cui si abbinava alla festa la vendita di prodotti e piatti tipici; mescolare cultura, folclore e gastronomia era una cosa mai vista, ed ebbe grande successo. I sindaci Raffaelli e Bindi si fecero “ambasciatori” del Brunello (suscitando approvazione, ma anche molte critiche) e incoraggiarono imprenditori di ogni luogo a venire a Montalcino; nel pieno dei conflitti sociali del sessantotto fecero realizzare senza problemi tutte le cantine, opifici e strutture che servivano, aiutando le imprese in ogni modo. Ma rispettando sempre qualità edilizia, regole e territorio. I viticoltori unirono gli sforzi di tutela e promozione sotto l’egida del Consorzio del Brunello, che è l’unico in Italia ad aver sempre rappresentato oltre il 90% del suo vino. A conferma di un successo ormai consolidato nel 1981 Biondi Santi e Fattoria dei Barbi furono incluse da Wine Spectator tra le 100 aziende più prestigiose del mondo del vino nella prima New York Wine Experience (fonte: archivio Wine Spectator). Negli anni ’70 ed ’80, quelli in cui si è creato il mercato ed il mito mondiale del Brunello, Montalcino è stato un esempio di collaborazione di un intero territorio.
Nel 1980 lo scenario è simile a quello attuale; i marchi importanti oggi sono quasi tutti presenti e nel piccolo mercato mondiale di quegli anni il Brunello è già ben noto. Anzi, in percentuale vendeva più di oggi. Sui numeri delle bottiglie merita fare una nota; esistono dati ufficiali, però per il periodo antecedente al 1980 sono notoriamente falsi. La situazione cambiò con la DOCG, perché venne imposto un sigillo numerato stampato dallo Stato (come le banconote). Nessuno si scandalizzi, in quegli anni l’Italia intera funzionava così; per avere un dato credibile bisogna moltiplicare il numero delle bottiglie vendute prima del 1984 per tre/quattro volte. Quelli sono stati anni di grandi innovazioni. Nel 1980 il Brunello è la prima DOCG d’Italia. Nel 1984 nasce il Rosso di Montalcino, la prima DOC di ricaduta; una grande innovazione di cui parleremo in seguito. Nello stesso periodo inizia una politica di promozione all’estero del Brunello che presto vedrà dozzine di eventi in ogni parte del mondo; un’accorta politica di “semina” che permetterà a tantissimi produttori di trovare referenti all’estero. Un’altra novità del’inizio degli anni ’80 fu l’arrivo di Villa Banfi, che per anni impostò i suoi investimenti in vigna ed in cantina su un modello di sviluppo totalmente diverso rispetto a tutti gli altri; secondo loro il futuro di Montalcino stava nel Moscadello e nei vitigni alloctoni, che tuttora rappresentano la larga maggioranza delle sue superfici vitate. Le opinioni sull’impatto di Villa Banfi sul territorio sono così discordanti che una analisi oggettiva è difficile, ma è certo che i suoi grandi investimenti promozionali e di marketing abbiano dato un tangibile contributo alla già grande notorietà del Brunello. Più o meno nello stesso periodo arrivarono un gruppo di altre grandi aziende vinicole di provenienza soprattutto chiantigiana.
Gli anni ’90 iniziarono all’insegna dello sviluppo delle quantità e del consolidamento dell’immagine del Brunello, ma si sono chiusi con un cambiamento totale della fisionomia produttiva del Comune. Nel 1992 Montalcino inventa le “anteprime vinicole” con il suo “Benvenuto Brunello”, per la prima volta in un unico contesto la stampa può degustare tutti i nuovi Brunello e Rosso di Montalcino; è un grande successo, poi copiato da tutti i vini italiani. Nel 1997 il Consorzio del Brunello vota l’aumento dei vigneti del Brunello, in pochi anni si passerà da 1.260 ettari a 2.100 raddoppiando anche il numero dei produttori. Gli equilibri saranno rivoluzionati, ma la percezione di questo mutamento richiederà anni ed in parte non è ancora avvenuta. Prima del 1997 le dieci più grandi aziende avevano oltre la metà dei vigneti, dopo l’espansione meno di un terzo. Più della metà dei marchi esistenti nel 2012 è nato in questo periodo, e lo ha fatto per lo più partendo da modeste possibilità di investimento e da poca esperienza pregressa. La ricerca di un nuovo equilibrio è stata complessa, anche perché ha coinciso con le crisi mondiali del 2001 e 2007 e con Brunellopoli nel 2008. All’inizio del 2012 la stabilità dei prezzi del Brunello sfuso e in bottiglia nuda, la sparizione delle eccedenze e la sostanziale corrispondenza tra giacenze e vendite pare indicare che si è trovato un nuovo equilibrio. Quali sono le caratteristiche del nuovo assetto? Nessuna azienda ha chiuso. I “nuovi nati” degli anni ’90 hanno acquisito esperienza, per ora più vitivinicola che commerciale. I commercianti (privi di vigne ma spesso dotati di cantina) sono divenuti parte integrante del sistema, acquistano l’invenduto di tutte le aziende che così fanno cassa senza ridurre i prezzi dei Brunello con la loro etichetta; in un certo senso hanno sostituito la funzione di drenaggio delle eccedenza svolta per decenni dal Rosso di Montalcino. Ogni anno si vendono da nove a dieci milioni di bottiglie di Brunello così ripartite: per un quarto da parte delle dieci più grandi aziende, per un terzo da parte dei commercianti (soprattutto destinate alla GDO centro europea e italiana) e per il quaranta per cento restante da duecento aziende medie e piccole. La tradizionale divisione delle vendite era un terzo in Italia, un terzo in USA ed un terzo nel resto del mondo, ed è rimasta più o meno invariata con un leggero aumento del resto del mondo. Il fatturato della ”azienda Montalcino” è cresciuto, ma una parte sostanziale degli utili si è spostata da chi produce a chi commercializza.
Quello che è stato fatto nei secoli ha contribuito al successo del Brunello, ed a questo va aggiunto un fattore classico; l’innovazione di prodotto. Le innovazioni di prodotto di Montalcino sono state solo due, ma enormi; sono i nostri vini Brunello e Rosso di Montalcino.
In che senso il Brunello è stato un’innovazione di prodotto? Perché è stato il primo vino rosso italiano di alta qualità e alto prezzo venduto a milioni di bottiglie su tutti i mercati del mondo, perché è stato il primo vino “varietale” italiano ad essere accettato nel mondo dell’alta qualità (che prima era monopolio del gusto delle “cinque grandi” uve francesi) e perché è stato il vino per cui è stata messa a punto la “produzione di massa” del vino di fascia alta, nessuno aveva mai prodotto prima così tante bottiglie di vino di alto prezzo. Il Brunello ha creato un intero segmento del mercato mondiale del vino, un segmento che prima non esisteva.
Il Rosso di Montalcino è stata un’idea geniale; ha permesso di vendere poco dopo la produzione le eventuali eccedenza del Brunello, dando così subito alle aziende la liquidità necessaria a coprire quasi tutte le spese. Il Brunello a quel punto era un “di più”, le aziende potevano prendersi tutto il tempo che volevano per venderlo al massimo prezzo. Questo meccanismo virtuoso ha generato due decenni di crescita continua dei prezzi. Poi purtroppo si è deciso di aggiungere 500 ettari di vigne a questa DOC, che in questo modo non ha avuto più bisogno di usare le eccedenze del Brunello; così un meccanismo utile non ha funzionato più.
Altro fattore di sviluppo è stata una “fertilità imprenditoriale” senza pari; dal 1975 al 2000 sono nate da cinque a dieci nuove cantine all’anno dotate di tutto ciò che c’era di più moderno nel campo dell’enologia, e ogni nuova struttura spostava l’asticella della qualità un pochino più in alto. Quasi tutti i migliori enologi hanno lavorato qui, e anche questo ha innescato competizione ed interesse nei media. Non possiamo negare che la continua competizione per la qualità ha portato anche ad eccessi, che ci sono costati molto cari. Però la salute intrinseca del sistema è stata così forte da permetterci di usare la malattia per crescere; sono salite alla ribalta nuove aziende, altre si sono confermate nella qualità e alcune hanno subìto una battuta di arresto, ma Montalcino nel suo complesso è sempre e comunque ai vertici dell’enologia italiana.
A riguardo della solidità del “sistema Brunello” vorrei far notare una nostra peculiarità, che lo rende solido ma poco comprensibile per chi è abituato a spiegazioni semplici; non ha mai avuto un’azienda leader di mercato, perché nessuno ha mai raggiunto stabilmente il dieci per cento del Brunello venduto. Solo Biondi Santi e Fattoria dei Barbi hanno superato questo limite in periodi diversi, ma più di trent’anni fa. Montalcino ed i suoi sangiovese sono il frutto del lavoro secolare di una collettività che è partita da alcune famiglie locali ed ha saputo arricchirsi accogliendo tanti nuovi contributi venuti da ogni parte del mondo. Montalcino ha certamente dei grandi protagonisti, ma ne ha così tanti e sempre nuovi che sono un coro. E un coro non muore mai.
Alcuni dati sul sangiovese a Montalcino nel 2012. Il Comune ha 3.600 ettari di vigna, di cui sono di sangiovese i circa 2.100 iscritti a Brunello più i 550 iscritti a Rosso di Montalcino e circa 300 dei restanti. Dunque sono sangiovese 2.850 ettari, pari all’82% dei vigneti di Montalcino. È divertente un’ulteriore elaborazione del dato; se escludiamo i vigneti delle 5 aziende con più vitigni “non indigeni” la percentuale del sangiovese di tutte le 304 aziende rimanenti sale al 97% di media. Chi fa viticoltura a Montalcino crede nel sangiovese, e le vigne lo dimostrano. I rivendicatori delle nostre DO sono 309, di cui 235 iscritti al Consorzio; occorre però tenere conto che quei 235 rappresentano quasi tutto il Brunello imbottigliato. Dai dati del 2010 (gli ultimi disponibili) il più grande produttore di Brunello ha solo il 7% del mercato, seguito da un altro con il 6%, uno con il 4%, tre con il 3%, sette con il 2% e altri duecento altri con quote minori. Nel 2011 (dati parziali) abbiamo un diverso produttore che diviene il primo con una cifra di poco superiore ma si conferma l’usuale spezzettamento; come vedete a Montalcino non esistono leader di mercato, la produzione è, ed è sempre stata, estremamente frazionata.
Queste sono le premesse, ma da sole non spiegano cosa rende diverso Montalcino da ogni altra area vinicola d’Italia né spiegano un successo che supera i secoli, le crisi e gli scandali. Il prodotto eccezionale, la reputazione conquistata, la storia e la Toscana sono premesse indispensabili, ma le hanno anche altri per cui di per sé non sono sufficienti.
Io ho una teoria, soggettiva quanto volete ma basata su qualche secolo di esperienza familiare; Montalcino ha successo perché qui storia e cultura hanno fatto si che il prodotto prevalesse sul produttore. È questa la formula geniale che genera sviluppo. Come è accaduto? Le regole decise da noi hanno fatto sì che si potesse usare un solo Comune, una sola uva e un’unica procedura di produzione; stanti così le cose, è la dinamica stessa del sistema che fa sì che il Brunello tenda a venir percepito come un unico prodotto con più produttori. Questo non vuol dire che i marchi, la capacità e il terreno non contino, valgono eccome ma sono solo un valore aggiunto rispetto al peso preponderante del marchio Brunello. Che è di tutti.
Questo porta a tre importanti conseguenze; primo, ogni nuovo venuto ha la possibilità di fruire della visibilità e vendibilità rese possibili dal marchio Brunello alla pari con me o Biondi Santi; secondo, il Brunello di Casanova di Neri che viene eletto il miglior vino dell’anno da Wine Spectator avvantaggia anche me, Poggione ed ogni altro produttore; terzo, dato che il nome Brunello è di un intero territorio l’interesse a promuoverlo coinvolge tutti i viticoltori ma anche ogni operatore economico locale, il Comune, lo Stato e perfino i semplici residenti. Tutto questo non potrebbe avvenire con Château Pétrus, Opus One o Tignanello, quelli sono modelli di sviluppo straordinari ma diversi, che avvantaggiano le ditte ma hanno ricadute molto limitate su territorio e confinanti. E di conseguenza mobilitano una quantità molto minore di interessi. Un’altra conseguenza del “sistema Montalcino” è che non esistono leader qualitativi immutabili, perché tutti sono posti nella condizione di competere e lo fanno. La competizione dà visibilità e mercato ai nuovi che sono bravi e, talvolta, affossa i consolidati che si addormentano sugli allori. Un sistema così concepito é enormemente robusto e dinamico perché tanti e sempre nuovi portano lustro e successi, e i vantaggi vanno a tutti. E va anche considerato che i venti o trenta che ottengono punteggi cattivi nelle guide o nei giornali spariscono di fronte allo sfavillio del gruppone di cento e più che ottengono premi. E ogni guida o giornale del mondo ripete questo rito, anno dopo anno. Non a caso il sistema ha rischiato di andare in crisi solo quando si é cercato di introdurre in modo “strisciante” il taglio, che avrebbe automaticamente aumentato le differenze tra i produttori e portato ad un diverso modello, basato sui singoli marchi affermati e non su una collettività di produttori che condivide un marchio comune. Montalcino è talmente unico e diverso da tutti gli altri che sembra difficile da capire, ma basta accettare le sue peculiarità per decrittarlo facilmente. In questo contesto diventano ovvi anche i meriti veri e il ruolo di famiglie come i Biondi Santi, i Costanti, i Franceschi, i Padelletti, la mia e qualche altra presente da tanto tempo; noi siamo quelli che hanno saputo essere forze propulsive ed esempi del Brunello nei secoli, ma senza mai pretendere di averne il monopolio.
Per leggere tutte le puntate:
Dal Medioevo al dopoguerra: appunti per una storia del Brunello e dei vini di Montalcino (parte 1)
Dagli anni ’60 ad oggi: appunti per una storia del Brunello e dei vini di Montalcino (parte 2)